“Al seggio meglio andare senza rossetto alle labbra. Siccome la scheda deve essere incollata e non deve avere alcun segno di riconoscimento, le donne nell’umettare con le labbra il lembo da incollare potrebbero, senza volerlo, lasciarvi un po’ di rossetto e in questo caso rendere nullo il loro voto”, questo raccomandava Il Corriere della Sera in occasione dell’evento. Il 1° febbraio 1945 veniva emanato il Decreto legislativo luogotenenziale n. 23, che stabiliva, per la prima volta nella storia la concessione del diritto elettorato attivo e passivo alle donne, salvo le minori di 21 anni e le prostitute. Nel decreto venne però dimenticato un particolare fondamentale: l’eleggibilità delle donne, che venne stabilita con un decreto postumo, il numero 74 del 10 marzo del 1946. L’estensione di febbraio porta la firma di Umberto di Savoia, ma fu dovuta alla pressione di Alcide De Gasperi (Democrazia Cristiana) e Palmiro Togliatti (Partito Comunista). Contrariamente a come si crede, la prima occasione di voto per le donne non fu il 2 giugno 1946 con il referendum istituzionale, bensì le amministrative del marzo 1946: con un’affluenza che superò l’89 per cento, circa 2000 candidate vennero elette nei consigli comunali, la maggioranza nelle liste di sinistra.
La rivendicazione dell’accesso della donna alla sfera pubblica, che fin dai tempi di Aristotele era stata fondata sulla base dell’espulsione delle donne, non fu una banale estensione dei principi liberali e democratici, ma il frutto di una lunga e ardua battaglia. La prima volta in cui in Italia ci si è avvicinati ad un suffragio che poteva essere definito universale fu per vie giudiziarie. Lo Statuto Albertino, che nel 17 marzo 1861 divenne la Carta fondamentale dell’Italia Unita, recitava: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo e grado, sono uguali dinnanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi.” Anche se in modo non esplicito, una di queste eccezioni interessava proprio le donne. La riforma elettorale del 1882 concesse il diritto di voto ad una parte del movimento operaio, ma continuò ad escludere il sesso femminile; in maniera uguale, anche la seguente legge del 1895.
A Roma, il 23 aprile del 1908, ci fu il primo Congresso nazionale delle donne italiane: il Consiglio durò diversi giorni e fu l’ennesimo sforzo di realizzare quelli che fino ad allora erano soltanto ideali, traducendoli in progetti e riforme da sottoporre al governo e al parlamento. Il diritto di voto fu uno dei temi principali, ma si parlò di altri argomenti come il diritto di famiglia e di divorzio.
Nel 1912 venne introdotto il suffragio universale maschile, ma la guerra fermò momentaneamente la lotta delle donne. Nel 1925 entrò in vigore una legge che diede ad alcune italiane l’opportunità di eleggere gli amministratori locali ma, subito dopo, le madri dello stato fascista furono estromesse alla pubblica amministrazione, venne interdetta la vendita di contraccettivi e vennero istituiti premi per le famiglie con molti figli. Numerose femministe scapparono all’estero.
Nell’ottobre 1944, con l’arrivo della Seconda guerra mondiale, nacque un nuovo attivismo, l’Unione donne italiane (UDI), che, appoggiato dalle rappresentanze dei centri femminili dei vari partiti e dal Comitato nazionale pro-voto, presentò al governo Bonomi un documento nel quale parlavano del bisogno di estendere il suffragio universale maschile anche alle donne, che un anno più tardi sarebbe diventato legge.
L’evento del 1° febbraio 1945 fu un traguardo essenziale per le donne ma anche per l’Italia, che ottenne una vera democrazia, universale, che incluse per la prima volta la metà mancante della popolazione. Le battaglie e le lotte che le donne hanno portato avanti devono garantire non solo il mantenimento delle conquiste fatte, ma devono soprattutto servire da monito per il dibattito critico odierno sulle difficoltà e sui diritti delle donne nel contemporaneo.